Saturday, November 10, 2012

Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 3.

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(Lei)

Camminai per un po' pensierosa in mezzo agli scaffali delle guide turistiche, degnandoli a malapena di pochi sguardi assenti, passando feci scorrere le punte delle dita sulla fila degli atlanti fotografici dai titoli dorati, e mi fermai davanti al reparto Viaggi. Mi concessi il piacere di tirare fuori qualche libro, rigirarlo tra le mani, sfogliarlo pigramente, leggere quello che c'era scritto sulla copertina di dietro, per poi rimetterlo a posto. Il momento di dover scegliere un nuovo libro da leggere è sempre stato il più entusiasmante per me, come quando hai un budget illimitato e sei di fronte a una cartina geografica, e non devi far altro che puntare il dito e dire Io andrò qui, e la mente già si eccita al pensiero di chissà cosa troverò, chissà cosa scoprirò, chissà quali sorprese mi riserverà la sorte. È il momento nel quale l'immaginazione è libera di pensare qualsiasi cosa, soprattutto se ci si ritrova davanti a qualcosa di completamente ignoto, qualcosa di cui non abbiamo assolutamente nessuna informazione, nessuna recensione, nessun commento, nulla. L'immaginazione allora è come un animale in libertà, che corre, corre, corre, fino a sfiancarsi, fino a cadere esausto sull'erba, ed è lì che finalmente apri la prima pagina del libro che hai scelto e incominci un nuovo viaggio. Valutai le varie opzioni che mi avevano incuriosita di più e alla fine presi un libro spesso, dalla copertina viola, con un inserto di fotografie a colori nel mezzo: “La leggenda delle montagne naviganti”, di Paolo Rumiz. Contenta della mia scelta, uscii dal reparto e mi diressi verso una delle poltroncine libere in corridoio. Il vantaggio di andare in Sala Borsa di sabato a quell'ora era che non c'era quasi nessuno, e non si aveva mai problema a trovare un posto dove accoccolarsi e leggere per il resto della giornata. Tuttavia, notai che un po' più in là, su una poltroncina identica alla mia, c'era un ragazzo seduto con lo sguardo fisso su un punto e lì per lì pensai che mi stesse osservando. Quando però mi girai di nuovo a guardarlo, era intento a studiare attentamente il pavimento. Cercai di liberare la mente e mi concentrai sulla prima pagina del libro. La carta al tatto era spessa e ruvida, come piace a me. Prometteva bene.

(Lui)

Chissà da quant'è che sto seduto qua, su questa poltrona così morbida, ti predispone proprio al pensiero, anche il luogo, con tutti questi libri polverosi che sembra che assorbano i rumori con le loro pagine, fanno sembrare tutti i suoni ovattati, come se provenissero da una stanza chiusa, o è solo colpa della stanchezza e dell'erba? Prima di venire a sedermi qua ho fatto un giretto per i vari piani, e questo mi è sembrato il posto più tranquillo, infatti quando sono arrivato non c'era nessuno, io ero l'unico, e mi piace il silenzio che c'è qua. Non che mi serva per leggere, infatti non ho preso nulla dagli scaffali, anche se mi sono fermato a dare un'occhiata ai giornali, per vedere se è successo qualcosa di nuovo in questo mondo, ma tanto, che vuoi che succeda? Gira e rigira le notizie son sempre quelle, o forse sono solo quelle che arrivano a noi che sono sempre le stesse, boh. Mi sarebbe piaciuto fare il reporter, mi sarebbe piaciuto andare in giro per il mondo a vedere cosa succede davvero nei vari Paesi i nomi dei quali sentiamo in continuazione alla tivù – e l'Iraq, e la Palestina, e la Corea, e la Libia – e che però non abbiamo neanche la più pallida idea di come siano fatti. Già, mi sarebbe piaciuto tanto, e l'avrei fatto con passione, però il lavoro da reporter è uno di quei lavori che non sai da dove cominciare, voglio dire, uno come fa a diventare un reporter? Io sto studiando Lettere, la laurea ancora non ce l'ho, ma tanto dubito che serva poi così tanto come vogliono farci credere, stupido pezzo di carta pieno di firme svolazzanti e di timbri, e non penso proprio che mi potrebbe servire per diventare un reporter.
Ero venuto qua quando ancora non c'era nessuno, e infatti ero l'unico fino a pochi secondi fa, perché ora si è venuta a sedere una ragazza, a pochi metri da me, e guarda caso io me ne stavo immobile con lo sguardo perso proprio sul punto dove si è seduta lei, così dopo qualche istante sono stato costretto a distogliere gli occhi, perché avrebbe potuto pensare che la stessi fissando, e alla gente non piace essere fissata, anche se non la stavo fissando, anzi, non l'ho nemmeno vista per bene, avete presente quando rilassate gli occhi e non mettete nulla a fuoco? Ecco, è così che vedono il mondo i miopi, io lo so perché porto gli occhiali, mi mancano tre gradi all'occhio destro e tre e mezzo al sinistro. Essere miopi è una gran rottura di palle, perché se usi le lenti a contatto devi sempre ricordarti di portartele appresso insieme al liquido e al contenitore, e se porti gli occhiali quando piove o nevica non ci vedi una minchia.



(Lei)

Ogni tanto, da sopra le pagine giallognole di Rumiz, lanciavo qualche sbirciatina al ragazzo di fronte. Mi incuriosiva. Notai che portava delle scarpe nere strappate – quella di guardare per prima cosa le scarpe era un'abitudine che mi aveva tramandato mio padre. Ogni volta che da casa nostra passava qualche mio amico o fidanzato con ai piedi delle calzature vecchie e sporche, mio padre si irrigidiva, contraeva i muscoli della mascella e alzava il mento in quell'atteggiamento di sfida, come a dire Io non ho nulla a che fare con questa gente, e ogni volta la sera erano gli stessi discorsi, le stesse ramanzine, gli stessi Ma con chi vai girando, Ma non lo vedi che quello è un drogato, Ma non è che mi diventi drogata pure tu? E io ogni volta sbuffavo, scocciata, e gli rispondevo Ma lo sai che quelli che si fanno di bamba si vestono esattamente come ti vesti tu? E lui, sospettoso, mi chiedeva Si fanno di che? E io, ancora più scocciata, Di bamba, papà, di bamba, di cocaina! E lui faceva gli occhi tondi come due piattini e con la voce un po' storta dal terrore diceva Ma tu che ne sai, ma tu come fai a saperlo, ommioddio, ma allora ti fai anche di cocaina, ommioddio, mia figlia ha preso la brutta strada, figlia ingrata, ma lo sai quanti sacrifici abbiamo fatto io e tua madre per te, e tu è così che ci ringrazi, è così che vai spendendo i nostri soldi? E io, infuriata, dicevo Certo, perché è solo di soldi, che si tratta, vero? E lui mi rispondeva Perché, credi che sia stato solo con la buona volontà che ti abbiamo cresciuta? E andava avanti così, fino a quando non veniva mia madre a dividerci, a calmarci, ad asciugare le lacrime che scorrevano sulle mie guance e a lanciare occhiate supplichevoli a mio padre, chiedendogli silenziosamente Smettila, smettila ti prego, non vedi che la fai star male? Così lui, il mento ancora alto, la mascella ancora contratta, si nascondeva dietro al quotidiano, poi, come se si fosse ad un tratto ricordato di qualcosa, lo abbassava, mi guardava fisso e mi diceva Non voglio più vederti con quella gente, mi hai capito bene, signorina?, poi rialzava il quotidiano e si immergeva nella lettura.
La stessa scena si ripeteva sempre, identica, fino a quando, passati gli anni rabbiosi dell'adolescenza, non imparai che era diventato un rituale, un rituale al quale mio padre, ogni anno sempre più vecchio, si aggrappava disperatamente per sentire ancora che aveva una qualche briciola di potere su una figlia che gli stava sfuggendo, una figlia che si stava trasformando in una donna e che presto lo avrebbe abbandonato per sempre. Continuai a stare al gioco, ma ormai non piangevo più, e ogni tanto lo prendevo in giro, e anche lui, a volte, si prendeva in giro da solo, e finiva che scoppiavamo entrambi a ridere, e ci abbracciavamo, e ci baciavamo sulle guance.
E fu a mio padre che pensai, guardando quel ragazzo seduto davanti a me, con l'aria assente, un paio di occhi rossi dietro occhiali quadrati, e un paio di Converse davanti alle quali mio padre (pace all'anima sua!) avrebbe fatto la peggiore delle sue facce.

(Lui)

Mi sta osservando, e me ne rendo conto, ma faccio finta di non accorgermene. Voglio lasciarla libera di guardarmi, di studiarmi, di vedere come son fatto. Con la coda dell'occhio intravedo degli sguardi furtivi, che si affrettano a ritornare sulle pagine del libro che sta leggendo non appena mi muovo di qualche millimetro. Sono curioso, vorrei guardarla anch'io, ma preferisco aspettare un altro po', però sono impaziente, c'è qualcosa che mi solletica dentro dal primo istante che è apparsa nel mio campo visivo, e voglio capire che cos'è. Poi, finalmente, mi decido, alzo la testa, e la guardo anch'io, per la prima volta, non di nascosto, ma apertamente, senza far finta di voler in realtà leggere cosa c'è scritto su quello stand dietro di lei, no, è uno sguardo diretto, esplicito, tanto che me ne frega?, bevo l'immagine di lei tutta di un sorso, e dopo che l'ho vista – questa davvero non me la sarei mai aspettata – è come se qualcuno mi avesse dato una botta in fronte. Non ci capisco più nulla. Dio, che mi succede? Chiudo gli occhi, la testa gira. Chi è lei? Perché mi ha provocato questa reazione? Voglio aprire di nuovo gli occhi per guardarla ancora, e ancora, ma non so perché non ci riesco, c'è qualcosa di strano, ho paura – ecco, si, ecco cos'è – ho paura che riaprendo gli occhi lei possa sparire, ho paura che lei sia solo frutto della mia mente stanca, oppure, ammettendo anche per caso che lei sia vera, magari si potrebbe sentire infastidita, alzarsi e andarsene, e lasciarmi qui, solo, l'immagine di lei stampata nella retina, Dio, Dio, no, come devo fare? Non posso rimanere con gli occhi chiusi, la devo guardare, la devo guardare, la devo -

(Lei)

Il ragazzo davanti a me aveva chiuso gli occhi, forse si era addormentato, e ciò mi permise di guardarlo con più calma. Era molto attraente, nonostante le occhiaia viola e l'aria trasandata. Inchinai la testa di lato e ci pensai su: si, mi piaceva, decisamente.
Ad un tratto però, spalancò di colpo gli occhi, come si spalancano le porte quando si crea corrente, all'improvviso, cogliendomi impreparata, e le sue pupille erano fisse nelle mie, e -

(Lui)

- e le sue pupille sono fisse nelle mie, -

(Lei)

- e ci guardammo.

(Lui)

Vorrei che non finisca mai.

(to be continued...)

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